Raja Ampat Indonesia

“Marlin! Marlin! Marlin!” Schizza tre volte fuori dall’acqua, taglia la superficie del mare, in verticale, con un’elevazione da saltatore olimpionico. Si contorce, fa la giravolta, così, sospeso nell’aria, come se la forza di gravità non esistesse.
Non credo ai miei occhi.
Dall’altra parte un soffio in lontananza, una balena di certo. Di fianco a me, sulla barca, i papuani, i nativi della West Papua, gli abitanti delle Raja Ampat, con le loro bocche rosse e i pochi denti superstiti, con i loro lineamenti atavici, di un’era ancestrale. Con i loro sorrisi, solari, dolci, disarmanti.
Per essere il regno incontrastato della “macro”, il luogo del mondo con la biodiversità marina più ricca di piccole specie del pianeta, si presenta sotto mentite spoglie. Con due pezzi da novanta, di grossa taglia, due giganti dei mari. Preziosi e rari.
Ma qui, alle Raja Ampat, tutto è raro, tutto è prezioso. Tutto è unico. Esistono specie marine endemiche che vivono soltanto qui e da nessun’altra parte.
Di notte, all’imbrunire, quando il sole diventa una palla di fuoco incandescente che irradia di viola purpureo la superficie immota del mare e incendia il cielo di vampate di passione bruciante, scendiamo silenziosamente in acqua dalla spiaggia dell’isola di Agusta, nell’house reef. La barriera corallina digrada dolcemente fino a una profondità media sufficiente ad aprirsi come una tridacna gigante che mostra il suo tesoro nascosto, rosa pulsante, come una vulva dischiusa e umida. Le creature notturne lasciano il loro nascondiglio e si arrischiano allo scoperto, audaci, temerarie. Tutte camminano sul fondo sabbioso. Il cono geografico striscia sulle mucose del suo corpo viscido e molle di lumaca gigante. Si porta impettito il carapace brunito sulla gobba, non teme predatori che si tengono alla larga dalla sua proboscide esibita con sfrontata virilità, strumento letale di morte procurata con il veleno. La murena gialla si affaccia da un anfratto della roccia, scruta sospettosa i dintorni e scivola fuori sinuosa, con la bocca spalancata, in caccia. La pastinaca mascherata veleggia rasente il fondale con l’assetto più perfetto, sfiorando appena la sabbia in una scia nebulosa che annebbia la vista.

Ma è qualcun altro che dirige l’orchestra, un’orchestra di strumenti accordati e di suoni ovattati.
Procede lentamente, muovendo le tozze pinne pettorali con la roteazione circolare delle spalle che seguono la direzione. Cammina sulla sabbia, come fosse un animale di terra, come se non fosse un pesce. Lui cammina, non nuota, se non di rado. Lo squalo dalle spalline, il walking shark, l’endemico, l’unico, è lì che passeggia sul fondo marino con il suo corpo maculato e affusolato, con i suoi occhietti penetranti che scrutano l’orizzonte. Lo squalo che cammina è lì che s’inerpica faticosamente sui declivi del reef, tutto impegnato come se dovesse scalare una cima. Poi si rintana dentro una grotta e sta lì, steso, pigro, accondiscendente. Il suo vicino segue le orme, il più imponente wobbegong, lo squalo tappeto tassellato, anche lui semidormiente, adagiato lascivamente sotto le rocce. Quando avverte il ben che minimo rumore e subodora il pericolo, esce allo scoperto e si libra nell’acqua con la sua coda marrone attorcigliata ad anello e la sua grande testa schiacciata bianca marmorea, che rifulge nel buio. I suoi bargigli lo distinguono da tutti gli altri, lo squalo barbuto si direbbe, così buffo, così bello. Immersione notturna scintillante alla luce delle torce, scintillante di creature marine fiabesche, scintillante di stelle del cielo.
Ma la sabbia sott’acqua scintilla ancora di giorno di altre presenze fantastiche.

Il mimetico pesce pegaso allarga le sue pinne alate a ventaglio e si muove girando come una trottola. E’ microscopico, è lungo solo dieci centimetri, minuscolo, semplice, eppure così sofisticato. Poco più in là il pesce pettine, con la pinna dorsale dritta come una vela, nuota a mezz’acqua. Gli fa da antenna quel pennacchio che ha sulla testa, piccolo capolavoro d’ingegneria ittica.
Bianco su bianco, qualcosa si agita sul fondo creando una nube di polveri sottili. Ha il dorso ricoperto di piccole scaglie, ma non è una tartaruga. E’ piatta, tonda, incisa come il marmo lavorato. La razza porcospino improvvisa la sua danza navigando a vista con la movenza delle sue ali circolari.
Non è la stagione giusta la nostra estate, ma qui ci si viene per lei, la sorella maggiore, la regina del regno. E così, a discapito di ogni sconfortante previsione, quando scendiamo in acqua con la marea entrante per un disperato quanto ostinato tentativo, lei ci si para davanti, maestosa ed elegante. Rotea su se stessa davanti ai nostri occhi spalancati. Poi fa un giro di ricognizione intorno agli spunzoni di roccia, stazioni di pulizia, e si dissolve nel nulla. La manta, quella tutta nera di tre metri di apertura alare, anche lei ha voluto partecipare al sontuoso banchetto dei Quattro Re (Raja Ampat in lingua indonesiana), i sovrani del regno insediatisi nel cuore del triangolo dei Coralli.
Dunque non dovrei meravigliarmi di imbattermi in un altro abitante del posto, la cernia gigante dei coralli, che attraversa l’oceano come un condottiero imperioso seguito da un esercito di carangidi in marcia, reverenziali e marziali. Eppure è un’altra rarità assoluta, qui a Cape Kri, alla punta estrema dell’isola di Mansuar, uno dei siti più sbalorditivi dell’arcipelago insieme ai vicini Blue Magic e Sardine Reef. Maccarelli reali, squali pinna bianca allineati adagiati sul fondo, ciascuno con la sua remora ospite, tartarughe embricate e pesci coccodrillo, ovunque ti giri la specialità è contornata da un affollamento di creature marine che non ha pari in nessun luogo del mondo. Spirali di barracuda che si aprono a raggiera come un fuoco d’artificio argentato, famiglie di pesci pappagallo dal bernoccolo che giocano a rincorrersi in una frenesia territoriale adrenalinica e, mentre sei intento a fotografare l’ennesima meraviglia in miniatura del reef a Batanta, irrompono improvvisamente dal blu dodici mobule, che fendono la nebbia illuminando l’acqua di riflessi risplendenti con il battito delle loro ali dorate.
Sono ancora inebetita, incredula, alle prese con lo stupore che blocca la macchina fotografica, che sospende le attività di monitoraggio del computer, tanto che anche gli strumenti di navigazione si zittiscono e osservano un minuto di silenzio. Sono ancora lì che cerco di riprendermi dall’emozione. Mi volto per condividere la gioia con la mia guida subacquea, un giovane papuano che mi guarda attraverso la maschera con gli occhi venati di rosso, lucidi e profondi, che congiunge le mani in segno di rispetto, alla maniera orientale, per farsi perdonare di qualcosa che lui mi ha fatto vedere trascinandomi letteralmente con la mano nel blu per vincere la corsa sul tempo. E mi commuovo ancora di più, ammirata dall’umiltà e dalla dolcezza di questo momento, di questo mondo sottomarino, di questa umanità discreta e avvolgente. E sono già innamorata, perdutamente innamorata delle Raja Ampat, delle mobule, del giovane papuano. La magia dell’innamoramento sott’acqua.

Qualcos’altro mi guarda dritto in faccia, è cangiante, cambia colore continuamente, è mimetica. Una seppia gigante, con i suoi tentacoli frastagliati, appare ricoperta di strisce di pizzo lavorato come decorazioni per abiti da sposa. E’ bianca, rosata, viola, nera, tutto insieme, passa da una tonalità all’altra come una sfera LED che trasforma la luce in ammalianti metamorfosi cromatiche.
E’ un arcobaleno questo triangolo dei Coralli, come quello doppio che si staglia nel blu dopo l’improvviso acquazzone tropicale che rinfresca l’aria. Avvolge questo straordinario microcosmo terracqueo in una parabola che fa da trait d’union tra cielo e mare. E’ un arcobaleno questo triangolo dei Coralli, questo straordinario microcosmo subacqueo con le tre gradazioni di rosso, porpora e viola degli anemoni di mare e i suoi abitanti simbiotici. Il rilucente granchio porcellana, grande appena tre centimetri, condivide l’intimità con l’attinia ospite che lo difende dalla sua fragilità, perché si rompe facilmente, come una preziosa quanto delicata porcellana. Il gambero imperatore sta adagiato sull’oloturia leopardo, mimetizzato a tal punto da confondersi con le macchie del colorato cetriolo di mare che lo accoglie. Così piccolo, very small, il regno della macro. Una soddisfazione riuscire nell’intento di mettere a fuoco e fotografare in ingrandimenti da poster le tre specie di cavallucci marini pigmei, tre miniature, capolavori della natura. Pensare che non ho mai prestato attenzione alle piccole cose, sempre proiettata a sconfinare nel blu, alla ricerca dei grandi pelagici. Eppure vedere il pesce ago anellato con la sua boccuccia a pipetta, la testolina dell’anguilla serpente a pois che sbuca dalla sabbia, il micidiale gamberetto mantide dai colori sgargianti e le decine di murene a nastro dal colore blu elettrico, mi elettrizza e mi brucia le mani, puntualmente ustionate dalle piumette, banali alghe marroncine diffusissime tra i coralli, talmente urticanti che ti colpiscono a tradimento mentre sei impegnato a immortalare le meraviglie del sottobosco corallino. Una banale distrazione, un impercettibile ondulamento della risacca, le alghe ti sfiorano appena e sei rovinato. Ecco perché tutti indossano i guanti!

Tutta questa pandemia di creature dalle forme minuscole e bizzarre non mi costringono a rinunciare alla mia passione per i grossi predatori e a Marco Point mi lascio andare al piacere lascivo di interagire con decine di squali pinna nera in frenesia alimentare senza più ritegno. E’ un’immersione adrenalinica, spinta, hard, dove tutti i sensi si accendono e i freni inibitori si spengono, annientati dalla potenza della forza primordiale di questi magnifici predatori scattanti, veloci e sfrontati, che ti arrivano in faccia a bocca aperta senza il minimo pudore. Sono affannata, ma appagata, sono ansimante ma pervasa, pervasa di un’esaltazione, oserei dire, orgiastica. Mi stendo dopo il piacere, punto l’obiettivo e dipingo un quadro, dove grandi pesci pipistrello dalle bande nere, tondi come dischi volanti, si riuniscono stretti l’uno all’altro sulla superficie piatta di un’acropora. Sembrano in posa, fermi immobili nella corrente. E’ una gara di bellezza questa che si svolge sulle madrepore e il pesce leone distende i suoi raggi e ostenta tutta la sua vanità come un pavone che fa la ruota. Ammaliante come una seduttrice crudele, pronta a ghermire la preda con i suoi aculei veleniferi. Mi sposto sul fondo. Centinaia di ombrine dolcilabbra si affollano, ammassate, stipate, mi guardano dritto negli occhi, frontali, mi sfidano. Le chiamano grugnitori labbroni perché hanno labbra carnose protese in avanti come a grugnire, come a parlare, i pesci più loquaci dell’oceano!
E alla fine ci spostiamo in paradiso.

Melissa garden, il giardino sottomarino più bello del mondo. Una barriera ininterrotta di coralli di tutti i tipi si stende per chilometri sotto di noi, non c’è un centimetro libero dove soffermarsi, si vola, ci si tiene in assetto perfetto a mezz’acqua per evitare di toccare un fondale ridondante di forme e colori senza soluzione di continuità. Migliaia di anthias si sprigionano dalle ramificazioni delle acropore come scintille di fuoco, è un incendio che divampa nell’azzurro cristallino del mare, di questo mare che s’infila sotto il pontile di Arborek e trasporta con sé migliaia di sardine, tonni, azzannatori striati che scorrono come un fiume in piena tra i piloni colonizzati dai coralli molli rosso porpora. E’ un muro di pesci, annebbia la vista, sbiadisce la luce, nasconde il sole. I crinoidi fluttuano nella corrente, poi si posano e si aprono come ventagli di piume dai riflessi iridescenti, trasposizione subacquea del maestoso piumaggio degli endemici abitanti delle selve della Papua, gli uccelli del paradiso. Paradiso, la definizione ricorre. Qui, alle Raja Ampat, l’ultimo paradiso del pianeta.

Una risposta a “Raja Ampat Indonesia”

  1. Grande , l’Indonesia è fantastica, è stato il mio primo vero viaggio verso l’ignoto, anni fa, dopo un mese in giro in autobus, barche e mezzi vari, sono tornato uno straccio ma pieno di emozioni.

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